inquanta anni fa Giuseppe Morandi scattava, sedicenne, le sue prime fotografie, mosso, racconta lui, dalle immagini dei filari, degli amici e di sua cugina. Aveva trovato un modo suo di mettersi in rapporto con il mondo.
Così ancora prima del risultato estetico Morandi scopre l` immagine come rapporto umano e sociale vivo.
Questa vitalità dà alle sue foto qualche cosa di più di una memoria e trasforma la nostalgia che altrimenti ci stringerebbe il cuore e basta. Mettendo insieme le mostre organizzate da Morandi e dalla Lega di cultura di Piadena, coautrice paziente del suo lavoro, i fotogrammi si trasformano in un unico grande film, in un potente flusso di immagini che raccontano quanto è accaduto agli uomini e alle cose a Piadena in questo ultimo mezzo secolo. Quanto è accaduto sotto i nostri occhi è così sconvolgente che rifiutiamo di rendercene conto fino in fondo aggrappandoci ad una normalità sempre più irreale. Ma sappiamo benissimo che abbiamo assistito ad avvenimenti straordinari, ad un salto della storia, alla distruzione di un mondo e alla nascita di un altro.
Il primo grande ciclo di fotografie del Morandi mostrava una classe, il suo modo di vivere e quindi un suo mondo vissuto che stavano per essere distrutti. I Paisàn si trasformavano in operai o in piccola borghesia. “I vecchi braccianti, cavallanti, bifolchi, mandriani, bergamini e le loro mogli sono trasportati al ricovero. Piangono. Si affannano. E` finita.” (volantino della Lega di cultura, 1 maggio 1967). Il capitale agrario si ristrutturava. Qualche decina di anni dopo i campi svuotati dagli uomini risuonano del lavoro dei trattori e di gigantesche macchine agricole; le cascine, i vecchi luoghi di comunità, ma anche di pena, si trasformano in depositi o in ruderi. E` stata un`epopea: Una intera popolazione con nonni, bambini e animali domestici si è trasformata, ha cambiato i suoi costumi e lasciato dietro a sé un patrimonio muto di pietre e di memoria. Quando negli anni `60 Morandi fotografava gli ultimi Paisàn non si sapeva nulla ancora di questo approdo in un nuovo paesaggio umano e agroalimentare, che sarà documentato e raccontato poi nelle foto degli anni `80 e `90. C` era chi accusava Morandi di fotografare i Paisàn come se fossero gli ultimi mohicani, ma lui scattava le sue foto per un riscatto di dignità, proprio per non finire nelle riserve. Non credeva nel futuro della piccola borghesia, la vera vincitrice delle lotte del ventesimo secolo, anche se ha dedicato due volumi (“Cremonesi a Cremona” e “Quelli di Mantova”) alla sua immagine ambigua e oscillante tra ottusità e progresso, tra corpi di consumo e corpi di lavoro. Non sono immagini che fanno sognare, anche se Morandi, in questo per fortuna poco ideologico, trova ovunque, in qualsiasi ambiente umano, uno paio di occhi che illuminano il futuro.
Ora invece, con la nuova mostra, il sogno ritorna. Cosa vuol dire questo titolo dato alle fotografie della famiglia di Jagjit e Puspha Mehta Rai fatte a Piadena nel 2002? La chiave della mostra mi pare siano i due grandi ritratti degli sposi in ricco costume indiano, sotto un albero di ciliegi giapponesi con i suoi fiori rosa, il tutto a colori smaglianti (rari nell`opera del Morandi che privilegia nettamente il bianco e nero). Non appaiono veri, diciamolo, rasentano il kitsch con queste citazioni esotiche di un mondo lontano e felice. Facile scambiarli per pubblicità, difficile accettare l`idea che qui, tra le nebbie della Bassa, le Mille e una notte siano scese in qualche cascina superstite. Se fossero vere, queste immagini sarebbero la prova di un sogno che né i Paisàn, né nessun altro a Piadena ha mai avuto la possibilità o il coraggio di fare. Perciò la difficoltà di riconoscerle, perciò il riferimento alla pubblicità o al folklore turistico, versioni tanto note quanto alienate dei nostri desideri. Ma queste foto del Morandi sono vere, sono realtà.
Lo dimostrano le venticinque altre foto dedicate al contesto nel quale vive questa coppia indiana. Possiamo leggere tutta la mostra come il seguito di “La mia Africa”, ma centrata su una sola famiglia e quindi approfondita (40 anni fa è stata la famiglia Azzali la chiave fondamentale per capire la condizione dei Paisàn). Apre Simona, la piccola figlia, con un passo di danza nel cortile. La vediamo con aria di sfida nella foto di famiglia in un cortile alberato di Piadena e poi cavalcare sulle spalle del padre, giocare insieme al fratello Hani e ancora con il fratello fare i bagni in due bidoni pieni di acqua. Nulla pare distingue la loro infanzia dalla nostra. Non pare nemmeno più strano vedere tre bambini indiani davanti al Comune o due madri indiane davanti alla facciata di mattoni del Tempio. Gli elementi edilizi che appaiono, mattoni, tegole e legno, fanno parte del grande universo contadino che va dall`India alla Bassa e consentono forse a chi arriva dalle campagne dell`India una certa familiarità con l`ambiente nuovo.
E` una famiglia “arrivata”, tutta allegra con la sua macchina nuova nel cortile. Dopo venti anni di soggiorno Jagjit ha la cittadinanza italiana. Ha fatto vari lavori (venditore di patatine nel Circo Orfei, cuoco in un ristorante a Modena) e ormai fa il bergamino, ben pagato perché nessuno vuole o sa più fare questo mestiere, impegnativo per il lavoro di notte, ma non massacrante come una volta. Lo fa con competenza e grazia (dovuta si dice a quel rapporto particolare della cultura indiana con gli animali). Anche Puspha lavora. La vediamo insieme a maestre e tre bambini in un asilo dove fa le pulizie. Un ultima parte dell`inchiesta inizia con una foto di famiglia davanti alla casa e una foto dei genitori in visita a Piadena (con la vita dura iscritta nel viso della madre) per finire in un gioco di sguardi da sotto la porta e di travestimenti. A Jagjit piace raccontare il passato nel presente usando i vestiti. E la famiglia partecipa. Bellissimo l`uso della tenda, del siparietto che divide il dentro dal fuori. C`è una foto dal dentro: Jagjit coperto dalla Gianghia vicino alla finestra nell` intimità di una persona adulta e innocente.
E` stato il giorno di Pasqua 2002. Jagjit e Puspha si vestono per portare gli auguri agli amici. Tirano fuori dall`armadio i vestiti più belli, quelli di seta, di colore, quelli dell` India. Morandi incontra i due nella casa della “maga Adele”. Capisce tutto. Il sogno dell`India portato come dote nella Bassa. E di più: I più umili, una volta i Paisàn, oggi gli immigrati, tessono la stoffa della quale sono fatti i sogni veri. Grazie a loro il sogno ritorna. Nei meandri della storia il patrimonio umano di una classe eliminata riemerge da altre origini e in forme del tutto nuove. Il grande racconto iniziato da Morandi nelle fotografie di cinquanta anni fa ha trovato una fine (ma la storia continua) imprevista e imprevedibile, intuita e profetizzata allora solo da un poeta:
“Scoppia un nuovo problema nel mondo. Si chiama colore.
Si chiama colore, la nuova estensione del mondo.
Dobbiamo ammettere l’ idea di migliaia di figli neri o marrone
Infanti con l’ occhio nero e la nuca ricciuta.
Altre voci, altri sguardi, altre danze: tutto dovrà diventare
Familiare e ingrandire la terra!”
Pasolini nel film LA RABBIA (1962)